sabato 24 settembre 2016

La sana pre-occupazione

"Chiara, non preoccuparti, si sbloccherà, adesso è ancora piccola, quando crescerà vedrai che passerà da solo."
Le rassicurazioniin realtà, mi creano ancor più confusione
Sì, d'accordo - mi dico - sto tranquilla: eppure io sento di non dovermi accontentare, sento di non potermi affidare semplicemente a una vaga speranza.
E quindi, che fare? 
Lascio stare o cerco soluzioni?
Certo, ci siamo già rivolti alla specialista. Ma avrei voluto che fossimo seguiti di più. Certo, ci ha detto come fare, gli accorgimenti da utilizzare. Ma avrei voluto un percorso di incontri, per provare se non altro a darle un input, per dimostrarle che ce la può fare. Ci è stato prospettato, invece, un semplice monitoraggio periodico del disturbo. 
Lo so, il lavoro grosso spetta a noi genitori. 
Noi, in collaborazione con il resto della famiglia, e con gli insegnanti o educatori in generale. Sì, perché è il suo contorno ambientale, che deve essere "trattato". Essendo una difficoltà legata alla relazione con gli altri, e non alle competenze cognitive del bambino, occorre agire sul contesto, piuttosto che su di lui direttamente. 
Far conoscere, a coloro che interagiscono con un bambino selettivamente muto, una diversa modalità di relazionarsi, una diversa strategia comunicativa. [*]
E' questa, però, la cosa che mi dà maggiore tormento. Come trovare le giuste parole per dirlo? Come provare a spiegare agli altri cos'ha e cosa fare, senza sembrare troppo didascalica o inopportuna? Probabilmente, sarà tutto molto semplice e naturale, e sono io che come al solito mi faccio inutili viaggi mentali.
Mi sorprendo allora a fare le prove, a preparare un canovaccio, a simulare la conversazione, a prendere appunti
Quando ho discusso la tesi di laurea, avevo meno stress. 
Per dire. 
Vuole fare musica. Bene. Devo informare il maestro di musica. 
Vuole fare ballo. Bene. Devo informare le insegnanti di ballo. 
Capiranno?
Collaboreranno?
"Matilde ha un disturbo d'ansia, si chiama mutismo selettivo. E' la difficoltà a parlare con gli altri in contesti sociali, mentre invece a casa o dove si sente sicura e rilassata parla normalmente. Non è un rifiuto o un'opposizione, ma è un'incapacità a parlare. Vorrebbe ma non riesce, perché prova una sensazione di ansia e paura che la blocca. Prima cosa da fare: evitare di insistere affinché parli. Si otterrebbe l'effetto contrario di un'ancor maggiore chiusura, poiché sente la pressione dell'aspettativa su di lei. Seconda cosa da fare: adottare degli accorgimenti per farla comunque partecipare e coinvolgerla nelle attività, ma senza che le sia richiesta la performance vocale. La voce è congelata dalla paura. Occorre creare un clima il più possibile sereno e rilassato così da favorire le condizioni per una possibile verbalizzazione. Occorre saper interagire nonostante lei non se la senta di parlare: in questo modo, gradualmente, quando lei percepirà che l'ambiente circostante non le impone di esprimersi con le parole, ma accetta la sua difficoltà, permettendole di sciogliere l'ansia che le sale addosso, potrà sentire finalmente che è in grado di farlo."
Che polpettone! Troppo prolisso. Troppo manualistico. 
Certo, l'essenziale è questo. 
Provo a dirlo in soldoni.
"Matilde parla con mamma, papà e nonni. Con gli altri, no. Il motivo è l'ansia: la sensazione di paura, che prova, le blocca le parole in gola. Lei cerca la relazione, non si tira indietro: ma è più forte di lei, per adesso non ce la fa. Meglio evitare quindi di chiederle di parlare: non lo farà, anzi, si chiuderà di più. Farla partecipare, coinvolgerla, questo sì: ma senza forzarla ad esprimersi verbalmente. Fornire magari un'alternativa gestuale, a tutto il gruppo, per non isolarla. Per esempio. Adesso proviamo a riconoscere le note musicali: chi vuole può dire la nota cantandola, oppure può indicarla sulla tastiera."
Ecco, più o meno così.
Troppo diretta? 
Oh, insomma, alla fine quello che importa è che passi il messaggio. 
Siate delicati con sua difficoltà.
Sono sua madre, io. Ovviamente parlo da persona estremamente "di parte". E' che voglio semplicemente aiutarla. E' normale, qualsiasi genitore vuole cercare di essere di supporto e conforto per il proprio figlio.
E quindi, in definitiva, al contrario di tutti quelli che mi dicono di non preoccuparmi, sono invece contenta di essermi pre-occupata.
Di essermi - in senso etimologico del termine - "occupata prima" del suo disturbo. Il prima possibile. Prima che il tempo trascorso a dire "passerà, crescerà, parlerà" possa far perdere occasioni preziose per cercare di liberarla dagli strati di paura e ansia, che, invisibili a noi, finiscono invece per depositarsi come una nevicata sul suo cuore.
Aggiungo, in conclusione, un pensiero che prelevo dalla memoria di quando frequentai il corso pre-parto, dove una bravissima ostetrica, molto "rock", ci fece riflettere sulle fasi della gravidanza. 
Ne indicò tre, di fasi, nei nove mesi di vita intrauterina, che rappresentano in parallelo le tre fasi del parto e anche del post-parto, nei primi nove mesi di vita del neonato. E credo possano essere traslate anche ai periodi, più o meno lunghi, che vengono vissuti durante il percorso attraverso il mutismo selettivo. 
Ciascuno può riflettere su queste parole chiave, pensando alla propria esperienza. 
La prima fase, dominata da sensazioni confuse e contrastanti: è quella dell' adattamento, dell' accettazione, dell' apertura. Quando scopri che qualcosa sta cambiando, quando ti accorgi che c'è qualcosa di nuovo, quando ti prepari ad accettare il cambiamento, quando ti apri ad accogliere una nuova situazione.
La seconda fase, cosiddetta "dilatante", ma che è quella della socialità, della forza, della sicurezza. Quando cerchi di saperne di più, quando impari a conoscere cos'è, quando ti senti forte per affrontare quello che accade, quando ti confronti con altre esperienze simili. 
La terza fase, quella della separazione, del bambino che comincia a percepirsi separato dalla madre, dell' autonomia. Quando sai che il tuo compito sta per cambiare, quando la protezione diventa spinta e incoraggiamento, quando dimostri di avere fiducia nelle sue capacità e lo stimoli a provare da solo. Quando sai che lo accompagnerai per mano.
E infine, la raccomandazione che mi ero annotata, tra gli appunti del corso.
Più si sta con quel che c'è, più si sta in ascolto del bambino. Ed è in questo modo che si fa il meglio per lui. 




[*] Tolgo per ora dal contesto quelle persone "di passaggio", che in modo estemporaneo chiedono "Ma perché non parla?" oppure il classico "Ti hanno mangiato la lingua?", che è anche il titolo del libro chiave di cui parlo qui.

3 commenti:

  1. Giusto per un genitore pre-occuparsi nella definizione che hai dato. Significa, cura, attenzione. Pre-occuparsi in un modo NON preoccupato (nell'accezione di ansioso, angustiato, allarmato...) credo sia un po' più difficile da fare, ma assolutamente indispensabile riuscirci. Io come nonna di Matilde ce la metterò tutta! :)***

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    1. Grazie nonna, tu hai anche il compito di vigilare se mi vedi incupita o impensierita, per riportarmi subito sulla Terra! :) Certo, io intendevo il termine nel significato che sottolinea la tempestività dell'azione. Del resto, anche negli ambienti di lavoro è utile pre-occuparsi in qusto senso: quando c'è una situazione di difficoltà, cercare al più presto informazioni e soluzioni per risolverla, altrimenti si rischia che cronicizzi, portando con sè più danni che benefici. E poi, anche per questo ho creato il blog: per liberarmi qui delle mie preoccupazioni ansiogene, e riservare alle mie figlie soltanto i sorrisi, l'allegria, le coccole, le sgridate (quando ce vò), gli insegnamenti e i divertimenti. Spero (ma credo) funzioni! :)

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