giovedì 13 ottobre 2016

Sentirsi diversi

Sto leggendo in questi giorni "I Quaderni. Dal silenzio il canto: storie di mutismo selettivo", una raccolta di testimonianze dirette, ventotto storie di chi ha attraversato il mutismo selettivo, di chi lo ha vissuto e ne è in qualche modo uscito. 
In qualche modo, sì.
Ma a che prezzo?
Crescendo, certo, con la maturità si acquistano più strumenti, più consapevolezza, più coraggio. Però, nel frattempo, quante cicatrici lascia dentro.

Pensieri che mi tornano alla mente.
Vado indietro nel tempo e mi vedo. 
Fino alle elementari ero una bambina spensierata, se vogliamo anche ingenua. Giocavo ancora con le Barbie, per dire. 
Poi, alle medie, comincia il periodo più crudele per buona parte dei ragazzi: l'adolescenza. Crudele, almeno, per chi ha dentro qualche fragilità in più. 
Il senso di inadeguatezza, le insicurezze, il corpo che cambia, la voglia di essere uguale agli altri. Perché, a quell'età, non vuoi essere chi sei, non vuoi essere unico, chissenefrega la ricerca di sé stessi: vuoi solo, disperatamente, essere uno di loro. Essere come loro
Me lo ricordo ancora, il gruppetto delle ragazze "giuste": fumano le prime sigarette, hanno i primi ragazzi, parlano per la prima volta del sesso. Di quello che sanno, e di quello che fanno. Sono ostentate, disinibite, sicure, grandi
Io le guardavo con un misto di attrazione e disapprovazione. Sentivo che non ero così, io, non ero una di loro. Ma erano loro quelle ricercate, quelle desiderate, quelle "fighe". E io lo volevo essere altrettanto: cercata, desiderata, figa. Invece chi ero? Quella timida, quella secchiona, la mela ancora acerba. Certo, avevo le mie amicizie, uscivo con le mie compagne, condividendo l'inevitabile passione per una delle boy band più in voga in quei primi anni novanta. 
Ma ero piena di insicurezza - così come tuttora, anche se un po' meno - forse anche per la troppa fretta di crescere che ti assale da adolescente. 
E così trascorrono gli anni fino al liceo, sempre un po' in disparte, sempre un po' nell'ombra, sempre tra le meno popolari. Per quale motivo questo bisogno di omologarsi, non lo so. Che poi, invece, nell'abbigliamento, ad esempio, non mi piaceva affatto avere le stesse cose di tutti quanti. Anzi, rivendicavo con orgoglio il fatto di essere l'unica, o quasi, a non indossare certe oscenità, come le scarpe da ginnastica con le zeppe. Per fortuna è durata poco, quella moda. 
Sentirsi diversi, essere considerati diversi, in un periodo della vita in cui sei una persona ancora in costruzione, in divenire, ecco, forse dà un bel knockout alla tua autostima. 
Ed è così che la si vive quando non ci si sente mai all'altezza, quando si crede di mancare di qualcosa, quando invece non si sa di avere qualcosa in più. Una forza speciale. Una consapevolezza matura. Una sensibilità maggiore.
Mi ricordo quanto mi hanno ferita certi commenti, certe battute, fatte nei miei confronti.
C'è stato un periodo, finito il liceo, nei primi anni di università, in cui mi accorgevo di essere per così dire "selettivamente muta" ma al contrario: io lo ero in modo intenzionale, volontario, persino provocatorio
Certo, all'interno di un gruppo non ho mai spiccato, sono sempre rimasta dietro agli altri. Però mi ricordo benissimo che quando uscivo con la compagnia che allora frequentavo - più per evitare la solitudine, che per una reale condivisione di interessi - mi imponevo di restare in silenzio, oppure di rispondere a monosillabi, senza partecipare ai discorsi, se non con sorrisi e cenni gestuali. Non mi piacevo, io, e non mi piaceva comportarmi così. Ma in me prevaleva un rifiuto, anzi una sfida, quasi a dire "vi metto alla prova: vediamo se qualcuno vuole davvero conoscermi, se qualcuno desidera davvero avvicinarsi a me, venire a rompere il muro che ho creato e cercare di scoprirmi."
Ce ne sarebbe, da psicanalizzare qui! 
Tornando alle battutine feroci, ricordo ancora di quando mi affibbiarono un aggettivo, anzi, una lettera. Non d'amore, no: una di quelle dell'alfabeto. In quell'anno, spopolava una canzone di Ligabue, dal titolo "Vivo, morto o X". Ecco, avete già capito chi era considerata la X. Neanche "morta", no. Proprio ics. Una incognita.
Da un lato, mi sembrava che facesse figo. Mi distingueva. Era quello che volevo, dopotutto, no? Dall'altro lato, però, mi faceva sentire disprezzata, scartata, una cosa che non si sa che cos'è e che cosa ci sta a fare.

Ecco, nel mutismo selettivo, lì sotto, c'è un substrato fatto di una miscela di sensazioni come quelle descritte. E leggere le storie de "I Quaderni" mi ha fatto ritornare a come mi sentivo, a quello che provavo in alcuni momenti del periodo passato. 
Non sentirsi adeguati, né capaci o sicuri, vergognarsi, avere paura di vergognarsi, temere il giudizio negativo degli altri - perché i più severi giudici di noi stessi siamo proprio noi stessi. 
Ci siamo passati in tanti, suppongo, chi più chi meno, attraverso questi stati d'animo indefiniti e scomodi. Ed è vero: crescendo, si superano. O almeno, si attenuano.
Però, provarli da piccoli, nel periodo della vita in cui ci si sente più liberi, più spensierati, più disinibiti - e le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona il mutismo selettivo lo fanno emergere - fa sentire inevitabilmente diversi. 
Il che non è brutto o negativo, in sé. Ma togliere il velo d'ansia e di paura, che tiene in ostaggio dentro la gola quelle parole che non escono dalle bocche serrate dei bambini muti selettivi, dicevo, toglierlo con iniezioni di fiducia e autostima, ecco, quello fa sicuramente un gran bene.




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